#andrà tutto bene?

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11 Marzo 2020. L’OMS dichiara pandemia in Italia e il Premier Conte, nel primo dei suoi discorsi, ci invita a rimanere in casa; ci dice che siamo un Paese totalmente zona rossa.

Non possiamo spostarci in altri Comuni, non possiamo abbracciarci, non possiamo andare a trovare persone all’ospedale, dobbiamo stare a una distanza di almeno un metro gli uni dagli altri, non possiamo passeggiare se non per un preciso motivo, non possiamo andare in chiesa, non possiamo fare funerali ai nostri cari scomparsi.

Le parole escono fuori con una calma rassicurante, come se fossimo sempre stati abituati a farlo: sessanta milioni di abitanti costretti a cambiare la propria vita, in una serata.

Abbiamo capito che quello era l’unico modo per uscire da questo incubo. Così, dopo i primi indugi, ci siamo chiusi a casa dando sfogo a tutta l’italianità che ci contraddistingue: sono fioccate frasi ironiche sui social, video che denunciano un misto di follia e rassegnazione, ricette culinarie, workout per mantenersi in forma.Tutti consigli utili per trascorrere le infinite giornate di quarantena. 

Si sono poi aggiunti gli appuntamenti canori. Dai balconi abbiamo intonato Volare di Modugno, Azzurro di Celentano e l’Inno di Mameli, passando per Rino Gaetano e molti altri artisti noti e meno noti. Poi sono fioccati gli ashtag: #andratuttobene, #iorestoacasa, #neusciremopiùforti

Ma sarà davvero cosi? Veramente andrà tutto bene? Veramente ne usciremo più forti?

C’è chi dice che quando tocchi il fondo puoi solo risalire. È vero, ogni crisi profonda ha portato dei miglioramenti, delle riprese. Purtroppo è anche vero che ogni evento stressante porta conseguenze soggettive.

Come popolo potremo, anzi, dovremo rialzarci. Ma il singolo? Coloro che hanno perso il lavoro, che dovranno ricominciare tutto daccapo, che non avranno i soldi per pagare il mutuo. Coloro che soli in casa per giorni hanno avuto la sensazione di non farcela e si sono interrogati sulla propria vita. Coloro che sono rimasti soli in ospedale con la paura di morire. Coloro cui è morto un padre, una madre, un marito, un figlio, senza la possibilità di guardarli per l’ultima volta, di dire loro che sarebbe andato tutto bene, di chiedergli “scusa”, una parola rimasta per anni tra i denti, di dirgli quel “ti voglio bene”, a lungo rimandato pensando che ci sarebbe stato tutto il tempo. Senza poterli salutare neanche l’ultima volta con una sepoltura degna.

Tutte queste persone torneranno più forti? Per loro, quando tutto questo dolore finirà, sarà andato davvero tutto bene? No. Eventi straordinari come questi ti piegano, ti segnano per sempre, ti rendono cinico e fragile, incazzato e rassegnato allo stesso tempo. Una rassegnazione tacita che si trasforma giorno dopo giorno in un lento logorio che poco a poco lascia spazio ai rimpianti e ai rimorsi.

Allora l’unica piccola cosa da fare è guardarci dentro, ognuno di noi, e, se ci rendiamo conto che abbiamo strumenti in più di altri per attraversare la tempesta, non essere egoisti, mettendoci a disposizione di chi non ne ha.

Con una parola, con un gesto, con un sorriso, col rispetto, con la tolleranza, con l’altruismo. Non lasciamo che tutto quanto stiamo vivendo si disperda. Facciamone tesoro e doniamolo a chi ne uscirà più inaridito, soprattutto di animo. Solo questo potrà renderci davvero un Paese migliore, laddove lo volessimo veramente.

Vorrei concludere richiamando un passo di Haruki Murakami, tratto dal libro Kafka sulla spiaggia che credo sia l’esatto dipinto di questo momento:

“Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.”

 

Alessia Pavoni
 


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