Vittorio Sebastiani, classe ’48, olevanese doc. Uno scricciolo di 55 chili distribuiti su 160 centimetri di pura forza e determinazione. Con una frequenza cardiaca a riposo di 38 bpm aveva tutto per imporsi nel fondo e nel mezzofondo italiano. Per oltre vent’anni ha collezionato successi lungo tutto lo Stivale, accarezzando il sogno della maglia azzurra. Strada, pista, campestre… per lui non faceva differenza. L’unica cosa che contava era correre! E possibilmente vincere!
Scaviamo un po’ nella memoria ripercorrendo gli inizi, i successi e i record della tua carriera.
Ho iniziato nel 1966. Da juniores, sono arrivato quarto ai Campionati italiani sui 10 km su strada. L’anno seguente sono arrivato secondo in volata. Nel ’68 sono passato di categoria e tra i senior sono arrivato sesto ai Campionati italiani sui 30 km, a Molfetta. Poi nel ’70 mi chiamarono al primo raduno nazionale dei maratoneti tenutosi in Italia. Quello è stato lo spartiacque della mia carriera. Nei 15 giorni del raduno mi sono allenato come un professionista, due volte al giorno. Un doppio allenamento che nella vita normale non potevo permettermi, perché dovevo lavorare. In seguito mi sono tolto tante soddisfazioni, vincendo molte gare. Però se avessi potuto correre a tempo pieno il discorso sarebbe stato differente. I miei record sono: 18.800 metri sull’ora; 1h04’ sui 20 km; 2h27’ sulla maratona.
Quando e perché hai deciso di smettere?
Sai quando smetti? Quando inizi a non vincere più le gare. Io le ultime corse le ho vinte a quarant’anni. Poi lentamente ho lasciato l’agonismo perché con la testa ero sempre là davanti, però il corpo non mi seguiva più. Il declino fisico è naturale, ma mentalmente non lo accetti. Poi ho continuato a correre per il piacere di farlo. Tuttora un paio di volte a settimana mi faccio un’oretta di corsa. Anche se le ginocchia non mi assistono più tanto.
Tu hai vissuto la gloriosa atletica italiana degli anni ’80, con fondisti e mezzofondisti del calibro di Cova, Bordin, Pizzolato, Panetta, Antibo, solo per citarne alcuni. Qual era il segreto di quella generazione di fenomeni? E cosa si è inceppato oggi?
Oltre a quelli che hai citato ricordo i vari Magnani, Marchei, Gerbi, Messina, Accaputo, Fava. Semplicemente prima c’era più spirito di sacrificio. Oggi un ragazzo non ci pensa per niente ad andare a correre. Preferisce fare sport divertendosi. Ecco perché preferisce il calcio. Ma la corsa non è come il pallone. A correre sei tu e basta. Anche l’aspetto economico è importante. Quando inizi a vincere qualche soldo ti accanisci. Prima di gare ce n’erano tante e tutte con premi in denaro. Io ho iniziato a guadagnare fin dalle prime corse.
Scorrendo le foto degli anni Settanta e Ottanta salta agli occhi la folla lungo le strade. Una presenza massiccia e appassionata, lontana anni luce dalla situazione odierna, dove una gara podistica è vissuta dai più come un intralcio. Cosa è successo secondo te?
Prima, quando c’era un gara, si fermava tutto il paese. Era un evento. Non puoi neanche immaginare la gente che c’era per strada. C’era il tifo come a una partita di pallone. Ricordo le gare a Olevano (foto 5) piene di gente lungo tutto il percorso, dalla Piazza fino a san Rocco. Erano gare premiatissime, con circa duecento atleti alla partenza, tutti di livello. Chiamavano i migliori atleti in circolazione. Adesso è tutto cambiato.
Hai sfiorato la maglia azzurra. Raccontaci come è andata
Ho fatto il raduno in Nazionale nel 1970. Poi sono sempre rimasto a quei livelli, nel giro che contava, fino al 1976, quando ho sbagliato la gara che mi avrebbe potuto far entrare in Nazionale. Era la Maratona di Reggio Emilia. Ricordo che grazie a quella gara andarono in Nazionale due atleti di Roma che solitamente non vedevo proprio. Quel giorno arrivai 25esimo con 2h30’ e persi l’occasione. Non ero stato bene la notte precedente e purtroppo è andata così. Perché anche nello sport la fortuna conta. Tanto.
La gara che ricordi con più soddisfazione?
Ne ho tanti di aneddoti e successi da ricordare. Sicuramente la vittoria alle Tre Ville di Roma, i piazzamenti alla Maratona di san Silvestro e al Meeting romano delle Nazioni. Ma la gara più bella è stata quella a Ventotene del 17 settembre 1978 (foto 6). Gara nazionale sui 10 km. Vinse Ortis, che quindici giorni prima era stato campione europeo sui 5000m a Praga e medaglia d’argento sui 10000m; secondo arrivò Magnani, ora tecnico della Nazionale di maratona; terzo Marchei, che ha fatto la maratona alle Olimpiadi di Los Angeles, quarto Gerbi; quinto arrivai io battendo Messina, che era in Nazionale. Una gara bellissima, decisa in volata negli ultimi cinquecento metri. Una gara di altissimo livello. Con una strategia studiata la settimana prima, alla fine della gara di Lenola, dove vinse Frank Shorter, l’americano campione olimpico di maratona a Monaco. Alla partenza i primi mi presero un vantaggio di cinquanta metri che si portarono fino al traguardo. Arrivai settimo. Memore di ciò mi dissi: “Domenica prossima a Ventotene vi faccio vedere io”. E così la domenica seguente alla partenza mi attaccai ai primi e rimasi sempre davanti al gruppo a tirare. Alla fine fu una bellissima soddisfazione.
E quella che invece cancelleresti?
Qualche giornata storta c’è stata. Ricordo la Maratona di Salerno, del ‘78 o ’79 dove le gambe non andavano e alla fine ho mollato. Angelo (De Persio ndr) mi arrivò davanti, ma alla fine si sentì male. Quel giorno se l’è vista brutta. Io mi raccomandavo, specialmente quando andavamo in trasferta, e mi ripetevo sempre durante la gara: “Ricordati Vittorio che devi portare la macchina e devi tornare a casa”. Un’altra gara dove non sono andato bene è stata quella a Chiavari. Erano i Campionati italiani sui 30 km. Lì è stato un mio errore. Io ero abituato a mangiare tanto prima della gara. Quel giorno andai a pranzo con Accaputo. Lui prese una minestrina e pensai: “Ora ci provo pure io”. Pessima idea. Al primo giro sul lungo mare di Chiavari già ne vedevo due di mari…
C’è un atleta che hai ammirato e al quale ti sei ispirato?
Paolo Accaputo mi è rimasto nel cuore, tanto da dare il suo nome a mio figlio. Lui mi diceva sempre: “Quando vai a correre e non conosci gli avversari guarda come sono vestiti. Se hanno le scarpe sfasciate e la tuta rovinata guardati da loro. Perché sono quelli che macinano chilometri”. Un altro personaggio era Giuseppe Cappiello. Era unico, napoletano, correva per l’Esercito. A quel tempo aveva un’Alfa Giulia targata Terni. Quando andava a correre al Sud si faceva rimborsare da Terni, quando andava al Nord si faceva rimborsare da Napoli. Era tremendo.
Il primo pensiero che ti passa per la testa quando vedi un runner?
Come prima cosa guardo lo stile di corsa. Perché correndo male c’è un dispendio d’energia non indifferente. Anche se tanti hanno vinto, e vincono ancora, con uno stile di corsa inguardabile.
Ultima domanda sul doping. Ieri come oggi, è davvero un male inestirpabile?
Il doping c’è sempre stato, chi lo nega è un ipocrita. Io sono sempre andato forte col Cesanese. C’è stata qualche occasione in cui mi hanno detto di prendere qualche pasticca per respirare meglio. Io però ho sempre rifiutato. Qualcun altro, invece, che ne ha fatto uso è morto prematuramente.
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